“Dare una nuova bellezza a quello che è andato spezzato” – Intervista a Cristina Castrillo

“Fessure” è uno spettacolo del Teatro delle Radici, in scena dal 15 a 18 dicembre al Teatro Foce. Ne parliamo con Cristina Castrillo, che ha curato testi e regia dello spettacolo.
13 Dicembre 2022
di Silvia Onorato
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© Irene Zucchinelli
© Irene Zucchinelli

La tecnica giapponese del “Kintsugi”, o “l’arte delle preziose cicatrici”, consiste nel riparare i cocci rotti legandoli con sottili lamine d’oro: rompendosi, la ceramica prende nuova vita attraverso le linee di frattura dell’oggetto che diventa ancora più pregiato, grazie alle sue cicatrici. Il Kintsugi è l’arte di abbracciare il danno e di non occultare le ferite. “Fessure” è uno spettacolo del Teatro delle Radici sulle fratture e sulla difficoltà di riparare quel che viene rotto, spezzato, danneggiato. Lo spettacolo vede sul palco gli attori Giovanna Banfi-Sabbadini, Bruna Gusberti, Ornella Maspoli, Massimo Palo, Nunzia Tirelli e Irene Zucchinelli, per testi e regia di Cristina Castrillo.

Qual è stato il punto di partenza dello spettacolo?
Il profondo senso di disagio che avevamo – non solo io ma tutto il mio entourage, gli attori e i collaboratori che lavorano con me: un senso di disagio molto forte, difficile da tradurre nel nostro lavoro, e di cui durante la costruzione dello spettacolo abbiamo parlato più di quanto non facciamo solitamente. Un disagio legato al non sapere dove siamo messi, dove siamo in piedi, e cosa implica quello che chiamiamo normalità. Un disagio che non riusciva a trovare uno sbocco, finché qualcuno ha portato nella discussione la parola “Kintsugi”, qualcosa che non conoscevo e che ha in sé un significato straordinario: una tecnica e una filosofia per tentare di spiegare come le cose possano essere riparate per dar loro nuova vita, esponendo e non occultando le ferite; un concetto nato e coltivato, non a caso, in un paese come il Giappone. È una immagine poetica che ha calmato il nostro disagio per un po’, confortandoci e accompagnandoci nel lungo e travagliato percorso di costruzione di “Fessure”.

Sei sono gli attori in scena. Che storia raccontano?
Per rispondere alla parola Kintsugi, “Fessure” è uno spettacolo rotto, spezzato – per questo di difficile gestione. Come Teatro delle Radici spesso non ci adeguiamo a una drammaturgia dalla struttura aneddotica o raccontistica; a maggior ragione, in questo caso abbiamo impostato lo spettacolo come se avessimo buttato una ciotola a terra, spezzandola e raccogliendone i pezzi, quei piccoli pezzettini che hanno a che fare con ciascuna delle persone presenti sulla scena. Più che una storia comunicativa e totalizzante che si svolge, si tratta di piccoli elementi che, legati insieme, possono creare una comunità di pensieri, sensazioni, desideri. Uno spettacolo la cui costruzione ha presentato delle sfide: lo spettacolo si può vedere da quattro lati, qualcosa che non avevamo mai fatto prima, stimolando in noi una indagine su come usare lo spazio teatrale, i corpi, le situazioni.

Chi provoca le fessure? Noi o gli altri?
Spesso trascorriamo la nostra esistenza tentando di aggirare le fessure, ovvero le nostre ferite; invece di occultarle, è necessario riguardarle, tenerle a bada. Quando poi le ferite personali vengono alimentate da una fessura collettiva, da una società priva di direzione – qualcosa che noi avvertiamo particolarmente – credo che il disagio personale diventi ancor più difficile da gestire. Abbiamo quindi voluto portare in scena le piccole cose personali degli attori, legate a una società che non ci corrisponde quasi più: una distanza già c’era già prima del Covid, che si è acuita con il Covid e poi con la guerra. Quello che vediamo è un mondo totalmente provvisorio e mancante di reali valori, compresa la cultura stessa: è tutto parte di una ciotola che si è spezzata; e noi non sappiamo se siamo in grado di rispondere come vorremmo a questa preoccupazione.

Una fessura riparata con lacca e polvere d’oro diventa immediatamente visibile. C’è anche un appello all’altro, quando ci ripariamo?
In questo spezzarsi in cui ci aggiriamo nello spettacolo sono minimi i punti di contatto tra un attore e l’altro: tutto il lavoro è gestito costantemente nello spazio, ma non ci sono dialoghi tra le persone. Questo all’inizio non era voluto, ma è venuto così nella costruzione dello spettacolo, e se è venuto così c’è qualche ragione: tentare di ripararsi con un filino d’oro è un’attività profondamente intima, individuale; l’obiettivo è non tanto mostrare le ferite agli altri, ma, riparando, tentare di dare una nuova bellezza a quello che è andato spezzato. Forse è nella speranza di costruire una nuova bellezza – molto eufemistica in questo momento – che risiede la possibilità stessa di curare le ferite.

Secondo lei cosa ci permette di riparare le nostre fessure?
Ammettendo che si riesca – ultimamente non sono molto ottimista…
Credo sia possibile attraverso il lavoro creativo: considerando la professione teatrale come la intendo io, sento che in una traiettoria di più di 53 anni molti dei pezzi rotti che ci si porta costantemente appresso abbiano preso forma in materiale creativo di spettacoli che abbiamo proposto. Trovo sia importante vedere questi pezzi, rotti, plasmati in una forma bella, curata, o anche solo rappresentativa; non tanto esporre un disagio (lo spettatore non deve neanche per forza saperlo), ma usare il disagio nel proprio mestiere per vedere, per non ingannarsi, e per venirne a capo. In questo senso le proprie ferite sono una ricchezza. Fare attraverso il proprio lavoro quello che i giapponesi fanno con una ciotola che si spezza: cercare quale sia il piccolo oro giusto per tentare di riparare, costruendo qualcos’altro; un meccanismo creativo che a volte permette di curare qualcosa del disastro in cui siamo implicati tutti, anche se non vogliamo ammetterlo – a volte, non sempre. Penso sia questo il segreto grazie al quale si resiste al disagio e alle preoccupazioni.  

“Fessure” è dal 15 al 18.12 in diversi orari al Teatro Foce.
Maggiori informazioni: foce.ch

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