“I luoghi che visitiamo ci trasformano” – Visarte Talks #5, intervista a Michael Hirschbichler

Il primo appuntamento con Visarte Talks nel 2022 è il 5 aprile allo Studio Foce, con l’artista Michael Hirschbichler. Di formazione architetto, lavora sulla soglia tra arte, architettura e antropologia.
29 Marzo 2022
di Silvia Onorato
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Hirschbichler_Portrait
Foto: Matteo Fieni

Michael Hirschbichler (DE, 1983) ha studiato architettura all’ETH di Zurigo e filosofia alla Humboldt Universität zu Berlin, e ha un dottorato alla Berlin University of the Arts (UdK). È stato residente presso YARAT Contemporary Art Space a Baku, la Cité internationale des arts a Parigi, Villa Kamogawa (Goethe Institut) a Kyoto, e SACO (Goethe Institut e Institut Français) ad Antofagasta. Michael Hirschbichler ha anche avuto una docenza alla New Guinean University of Technology e all’ETH di Zurigo, ed è il destinatario della Hans Hollein Fellowship 2020 e del Premio Roma dell’Accademia Tedesca Villa Massimo. Attualmente il suo atelier si trova al Rote Fabrik di Zurigo ed è socio attivo di Visarte Zurigo. Muovendosi tra la ricerca e la sua trasformazione speculativa e utilizzando una vasta gamma di media, esplora come le narrazioni culturali, sociali, politiche, religiose e scientifiche, le mitologie e le ideologie si materializzano e danno forma agli spazi in cui viviamo.

La tua formazione è in architettura e filosofia. In che modo queste due discipline l’hanno formata come artista?
Ho studiato architettura e filosofia, anche se in filosofia ho una laurea ad interim quindi sarebbe troppo definirmi un filosofo. I miei studi architettura hanno dato una grande impronta al mio modo di fare arte: il mio interesse si focalizza sullo spazio, prendendo per oggetto luoghi specifici e comprendendo fenomeni sociali e culturali in modo molto “spaziale”. In generale, mi interessa esplorare come narrative, mitologie e ideologie culturali, sociali, politiche, religiose e scientifiche si materializzano e danno forma agli spazi in cui viviamo – e vice versa. Per questo studiare architettura è stato molto formativo per me. Ho sempre desiderato diventare architetto, sin da quando ero all’asilo, e pensavo che architettura e arte fossero la stessa cosa – in effetti per la maggior parte della storia dell’arte lo sono state. Il mio lavoro artistico cerca di fare proprio questo: fare arte come fosse architettura, e fare architettura come fosse arte, senza separarle. La filosofia invece mi influenza nel porre domande sul perché delle cose; stimola inoltre un interesse teorico per scoprire narrative e teorie dietro alla sostanza materiale, in uno sforzo volto a dare senso a un mondo alquanto confuso.

Nella tua carriera hai utilizzato diversi supporti e tecniche – dal cotone al suono, dal terreno al petrolio. Cosa ti guida nella scelta?
Il punto di partenza è sempre un approccio concettuale, tramite il quale provo a scegliere i materiali e i mezzi più adatti per ogni opera. L’idea è di usare materiali che vengono dalla storia e dalla funzione dei siti o dei luoghi dove lavoro. Per esempio, nel ciclo di opere di “Spirit Cloth” – una indagine sui luoghi in Giappone che ospitano fantasmi non umani – l’idea di usare del tessuto di cotone è arrivata dalla mitologia giapponese, in cui le donne fantasma indossano sempre vestiti di cotone bianco, e dalla cultura giapponese, per cui molte rappresentazioni di spiriti, fantasmi e mostri sono tradizionalmente disegnati e dipinti su tessuto e carta. Un altro esempio è l’uso di petrolio greggio e terra contaminata durante il mio lavoro nelle aree petrolifere dell’Azerbaijan, il modo più diretto per me per relazionarmi con questi luoghi e la loro realtà materiale-narrativa. Nei “Dipinti delle aree petrolifere” ho usato in modo improprio il petrolio greggio, stendendolo sulla tela al posto dei tradizionali colori ad olio. Infine, raramente uso una sola tecnica o un solo mezzo espressivo: spesso si tratta di una combinazione di diversi media, come dipinti, testi, registrazioni sonore, costruzione fisiche…; l’obiettivo è di quasi affondare in una porzione di spazio da diverse prospettive in modo da ottenere una descrizione spessa e una trasformazione dello spazio stesso.

Michael Hirschbichler & Lukas Raeber, “Theater of Combustion (Sumqayit)”, 2017
Michael Hirschbichler & Lukas Raeber, “Theater of Combustion (Sumqayit)”, 2017


Alcune delle tue opere (come “Spirit Cloth”, “Dissolves. Sky Pieces”, “Whitewashing”, “South Sea Papers”, “Chiaroscuro”) sono fatte di sovrapposizioni sia di realtà dicotomiche, sia di realtà semplicemente altrimenti lontane. Qual è l’intenzione dietro a questa idea artistica?

Questo aspetto forse non è così conscio. “Chiaroscuro” è uno dei progetti in cui ciò emerge in modo più evidente: il punto di partenza è l’opposizione e la giustapposizione di aree chiare e scure nei dipinti di epoca barocca. In generale, le dicotomie sono presenti in tutti i campi e i periodi storici: hanno prodotto innumerevoli classificazioni morali e politiche (dai principi estetici di bellezza, alle teorie razziali, dalle dottrine ecclesiastiche a concetti quotidiani), dando luogo anche a conflitti. Non penso sia qualcosa di esclusivamente europeo, ma in Europa il pensiero fatto di dicotomie è stato per tradizione molto forte. Ho avvertito il desiderio di occuparmene e creare un mio percorso attraverso le dicotomie mostrando che, da un lato, non sono entità naturali, bensì costruzioni umane ideologiche e molto problematiche. Dall’altro, provo a raggiungere un punto di sovrapposizione e scoprire le tante sfumature che ci sono tra i diversi stati, raggiungendo un grado di complessità che vada oltre le pure opposizioni.

Altre opere (“Soft Divider”, “The Threshold”, “Jammerthal”, “Borderlines”, “Insects”) invece trattano il concetto di confine, di limite, di separazione, di soglia. Per te qual è il significato di limite?  
I limiti possono essere considerati come le linee o gli spazi tra le dicotomie: se c’è una opposizione, c’è anche un confine che separa due campi opposti. Il limite è non solo una cosa fisica, ma anche una costruzione mentale – penso che i confini nel mondo fisico e quelli nel mondo mentale siano intimamente connessi. Nel mio trattare diverse tipologie di spazi e materiali, il filo spinato è diventato molto importante nel 2015, proprio pochi mesi prima che venissero eretti muri di filo spinato attorno ai confini dell’Europa. Ho letto un libro interessante sulla sua storia: una invenzione pratica utilizzata dapprima in agricoltura, poi in guerra e per delimitare i confini nazionali, che è diventata un materiale chiave della modernità.

Hai fatto delle residenze nell’Azerbaijan, in Giappone, e ne farai una in Cile a maggio. Ci racconti le tue esperienze in paesi così diversi?
Per me le residenze d’artista sono molto importanti: non solo sono opportunità per lavorare, ma anche per avvicinarsi a diversi contesti culturali. Ho anche fatto una residenza a Roma per un anno intero, presso Villa Massimo; prima ancora, ho vissuto e lavorato nella Papua Nuova Guinea – una esperienza che mi ha formato come essere umano, oltre che come artista. Ho imparato molto da tutti questi luoghi, e nel mio modo di vedere il mondo è la cosa più importante: i luoghi che visitiamo ci trasformano, si inscrivono nella nostra biografia e nel nostro modo di pensare, percepire e conoscere il mondo.

Hai creato diverse opere che trattano il tema dell’estrazione di combustibile fossile. C’è vita anche in quello che appare inerte?
Milioni di anni fa quello che oggi è petrolio era vita organica; nel corso del tempo è diventata una risorsa apparentemente priva di vita. Scientificamente, il greggio è composto da corpi decomposti e trasformati che un tempo erano organismi viventi. Quindi, in un senso immediato, sì, c’è stata vita nel petrolio.
D’altra parte, il petrolio è talmente legato alla nostra vita umana e individuale, e all’ordine mondiale: quasi tutto nella nostra quotidianità è connesso o costruito con petrolio. Anche molti conflitti geopolitici e guerre sono legate al petrolio. Quindi, anche se il materiale non è strettamente vivo di per sé, ha un grande impatto sulle nostre vite, come anche sulle vite degli altri esseri viventi del nostro pianeta.

Michael Hirschbichler, “Oil Field Paintings”, 2017
Michael Hirschbichler, “Oil Field Paintings”, 2017


Il tuo atelier di Zurigo è nel Rote Fabrik, centro culturale e musicale alternativo in riva al lago. Come influisce sulla tua arte l’essere a contatto con altre forme d’arte e altre persone?  
La vicinanza con tante forme d’arte è molto importante per me, perché mi interessano tutte, incluse letteratura e musica. Sono curioso riguardo a quello che fanno gli arti artisti – i loro strumenti, i concetti che utilizzano, l’impostazione che danno al loro lavoro, le loro personalità. Talvolta mi devo frenare dall’immergermi in troppe le forme d’arte (ride, ndr). Il mio desiderio è di costruire un cosmos artistico complesso dove i significati emergano tra diversi temi e discipline, quindi non posso affidarmi a un solo mezzo espressivo. Sono più interessato, diciamo, al “bricolage” di strumenti, concetti, mezzi, temi, domande… rispetto a una qualche forma di purismo.

Ci puoi raccontare qualcosa dei tuoi prossimi progetti?  
Ho appena iniziato un grande progetto di ricerca, condotto presso l’Università della Tecnologia di Delft (TU Delft, Paesi Bassi), l’Università di Londra Goldsmiths (Regno Unito) e l’Università di Aarhus (Danimarca), riguardante i territori dove viene effettuata l’estrazione di risorse. Il titolo è “Stained and Storied”, e si concentra sui terreni di estrazione intesi come paesaggi mitologici ricchi di storie. La maggior parte del lavoro che faccio esplora la connessione tra materiale e narrativa, in modo critico, e con questo progetto sto approfondendo questo approccio. Come parte del progetto visiterò il deserto di Atacama in Cile, il Rio Tinto nel sud della Spagna (dove ci sono le miniere di rame più antiche d’Europa), il Rheintal in Svizzera, e l’arcipelago Lofoten in Norvegia, e lavorerò in questi territori con un approccio che fonde arte, architettura e antropologia. Al momento sto anche curando una esposizione per l’Istituto Goethe Villa Kamogawa di Kyoto, dove sono stato in residenza qualche tempo fa: 130 artisti che hanno fatto lì residenze in passato sono stati inviati a inviare un “pezzo di connessione”, un lavoro in fase di realizzazione o un oggetto che sia impregnato della loro vita e biografia. L’esposizione avrà luogo a Berlino alla fine di aprile. Uno dei miei prossimi progetti solisti avrà luogo presso Kunstraum Engländerbau a Vaduz, in Liechtenstein: si tratta di un lavoro in continuazione con il mio ciclo a lungo termine “Theatrum Orbis Terrarum” e ha come oggetto i piani architettonici come mezzo non per costruire qualcosa, ma per riflettere e analizzare criticamente tipologie architettoniche quotidiane ed estreme.

Michael Hirschbichler incontra il pubblico il 5 aprile, dalle 18:30 alle 20:30, allo Studio Foce. Entrata libera, fino ad esaurimento dei posti disponibili. Possibilità di seguire l’incontro in Live streaming. Maggiori informazioni su foce.ch

Visarte-Ticino è un’associazione culturale che ha come scopo la divulgazione, la promozione e lo sviluppo delle arti visive nel cantone Ticino, in Svizzera e all’estero.
I Visarte-Talks hanno l’ambiziosa missione di esplorare il ruolo che gli artisti hanno nello scenario culturale contemporaneo locale e globale per poi continuare l’indagine ponendo particolare attenzione all’evoluzione dei personali metodi di ricerca degli artisti, come questi si rapportano alla formazione della memoria collettiva (percezione universale?), ma anche come vengono influenzati a loro volta implementando quel ciclo virtuoso che prende corpo nel nostro immaginario collettivo. I Visarte-Talks sono svolti in collaborazione con Agorateca Lugano e sostenuti dal Dipartimento della Cultura e dello Sport del Canton Ticino (DECS).

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