Come è nata la sua passione per la fotografia?
Ho cominciato a fotografare per gioco con la Yashica di mio padre, una vecchia TL electro-x, che di tanto in tanto utilizzo ancora. Poi ho costruito una piccola camera oscura e passavo intere giornate tra il buio e l’odore delle soluzioni chimiche.
Contemporaneamente ho coltivato la passione per il teatro, una passione di famiglia. Con mia sorella Ilaria – che non a caso è attrice e regista della scena pugliese – siamo state “educate al teatro” sin da bambine. Personalmente mi sento maggiormente a mio agio dietro le quinte, dove posso muovermi indisturbata come un gatto nel buio, divenendo un’osservatrice privilegiata di ciò che accade sulla scena.
Un certo tipo di teatro ha la capacità di toccare corde invisibili e muovere mondi interiori fino al quel momento sconosciuti, di lasciare segni profondi e a volte di curare. Penso a quanto possa aver influito sulla mia visione, la poetica di artisti come Mariangela Gualtieri, Guido Ceronetti, Roberto Latini, Odin Teatret, Pippo Delbono, Motus, Lyndsay Kemp, Robert Wilson… poi all’incontro determinante, con la Compagnia Finzi Pasca.
Come è avvenuto questo incontro?
Ero arrivata da poco a Milano e, nel febbraio 2008, al Teatro degli Arcimboldi era di scena Nebbia ovvero l’universo onirico del nouveau cirque arricchito da una corrispondenza perfetta di immagini, musica, scene, luci. Un incanto!
Le parole di Daniele che ancora non conoscevo personalmente mi hanno attraversata:
“…una nebbia in cui tutto diventa possibile, e in cui la realtà si trasforma in sogno… Ci sono nebbie spesse e profonde come ubriacature. Si perdono i punti di riferimento; restano solo i lampioni, pallidi riferimenti, isole di luce. L’orizzonte si scioglie e sembra che il mare possa iniziare tra due passi… Nella nebbia non ci si perde, si fanno solo incontri strani e non sono miraggi, non sono allucinazioni. Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni. Ero a teatro quando l’ho sentito dire per la prima volta e poi ho capito perché alcuni amano la nebbia e altri non sanno nemmeno cosa voglia dire perdersi per poi ritrovarsi.”
Ero nella “mia” nebbia personale e quell’incontro è stato come un’isola di luce. Ho scoperto che la Compagnia era solo a pochi passi da Milano e sono andata a trovarli alla Darsena di Magadino – la casa-teatro da 70 posti che ha visto nascere molti dei nostri spettacoli, anche i più grandi – e mi hanno accolta nella loro grande famiglia, con semplicità. Ho cominciato a collaborare con la Compagnia l’anno successivo, seguendo sin dai primi giorni la creazione di Donka – una lettera a Čechov, che andrà in scena per la prima volta a Lugano nelle prossime settimane. È stato un privilegio assistere alla nascita di uno spettacolo tanto denso e allo stesso tempo lieve e struggente, alla magia di quello che accade durante una creazione simile, alle suggestioni da cui è nato, alla visionarietà, all’empatia che si crea nel gruppo di lavoro, al meticoloso studio della persona e non del personaggio, attraverso l’attenzione ai dettagli e alle piccole cose, e, sopra ogni cosa, ho sperimentato l’umanità e l’umiltà di ognuno. La mia vita è inevitabilmente cambiata. La ricerca condivisa dell’estetica ma anche etica del bello, della leggerezza attraverso la precisione, e infine la fiducia riposta e la libertà di creazione, sono state e sono fondamentali per la mia crescita dal punto di vista professionale e umano.
I principi del “teatro della carezza” coinvolgono anche la fotografia?
Parlando del rapporto con lo spettatore, Daniele usa spesso il termine “commuovere” inteso proprio come “muovere con, insieme”. Ne nasce una danza tra attori e pubblico, che coinvolge tutti noi, anche chi è dietro le quinte, in backstage, a fondo sala, o in control room.
I concetti di “teatro della carezza” e “gesto invisibile” alla base della filosofia della Compagnia, delineano il nostro metodo di stare in scena. Riguardano la precisione, lo sguardo attento nei confronti dell’altro, l’intenzione che precede l’azione, la perfezione del gesto.
Il mio è un tentativo di restituire in immagini fotografiche questo lavoro armonico, cogliendone le geometrie perfette, le strutture invisibili, così come le definisce Facundo Ponce De León. Non c’è alcuna casualità, tutto ha un peso, una collocazione precisa nella costruzione di uno spettacolo: musica, scene, luci, acrobazia…
Cerco di raccontare semplicemente questo. E la musica di Maria Bonzanigo, fondamentale, e che una fotografia non può certo contenere… ma c’è tanta della sua musica nel mio tentativo di tradurre in immagini i sottili equilibri costruiti con il sapiente utilizzo di tutti gli ingredienti, scelti accuratamente.
Per Lugano Città del Gusto ha allestito l’esposizione “Il Giardino Armonico”. Può raccontarci come è nata?
La nostra Julie sosteneva che tutti dobbiamo costruire un giardino. Credo intendesse dire di coltivare le relazioni con cura, autenticità e semplicità, per lasciare traccia ed eredità di terra fertile (…lei manca molto).
A Montréal un paio di settimane fa le hanno dedicato un parco intero, di fronte alla sede del Cirque du Soleil. Nel parco c’è anche una panchina rossa, che arriva proprio da Lugano. Il suo “Libro rosso dei giardini” (ndr un libro antico, acquistato da un antiquario, che faceva parte della sua biblioteca personale) è stato il punto di partenza per la creazione della mostra fotografica presentata a Villa Ciani.
Dopo aver ricevuto l’invito da parte di Dany Stauffacher di Sapori Ticino a partecipare con una mostra fotografica all’evento “Lugano Città del Gusto 2018”, con Hugo Gargiulo ci siamo interrogati su come restituire un’immagine del nostro universo per coinvolgere “in un’esperienza estetica il visitatore che cerca un giardino dove possano sbocciare con leggerezza i pensieri” (cit. Gargiulo). Tanti elementi di cui disporre, migliaia di immagini, elementi scenografici, musica, testi, bozzetti originali, diari e appunti dagli archivi personali. Un tesoro inestimabile che per la prima volta abbiamo pensato di condividere pubblicamente. Così con la curatrice Valeria Raho, abbiamo provato a svincolarci da un linguaggio lineare e puramente didascalico. Potevamo farlo solo decontestualizzando gli oggetti scenici dal consueto uso “teatrale”, creando un percorso immersivo diviso per stanze tematiche e accompagnato dalle musiche di Maria, per poter raccontare la poetica della Compagnia nella sua complessità. È stato emozionante vedere tanta gente incuriosita e incantata alla fine del percorso.
Il prossimo dicembre festeggeremo 35 anni di filosofia del “teatro della carezza”, sarebbe bello trovare un modo per continuare a condividere frammenti preziosi della nostra storia.