Come è nato il tuo primo progetto “Skate Generation” del 2009?
All’epoca mi sarebbe piaciuto fare il reporter, andare a documentare situazioni dense in luoghi lontani, ma non avevo né i mezzi, né l’esperienza per farlo. Mi sono chiesto qual era la cosa che conoscevo più di tutte e che avrei potuto descrivere con onestà. Ho pensato così alla mia seconda famiglia: il gruppo di amici legato al mondo dello skateboard. Partendo da lì ho sviluppato l’idea di parlare della comunità skateboard degli ultimi 20 anni, dai primi skaters di Lugano, fino ai più piccoli. Penso sia stato un processo onesto e logico, ho voluto parlare della mia passione, dell’ambito in cui stavano tutte le mie prime esperienze adolescenziali.
Guardando i tuoi lavori si intravede anche una dimensione di ricerca legata al territorio. Come nasce un progetto?
La mia ricerca è molto legata allo sguardo e allo stile fotografico che applico. Sono uno dei pochi che lavora ancora col cavalletto e la macchina statica. Non sono uno street photographer che coglie l’attimo e realizza un’immagine sensazionalistica. La mia è una fotografia “banale” di primo acchito, nel senso che non ti prende subito, ma è più riflessiva perché viene sempre costruita su un concetto iniziale. Prima di mettermi a fotografare, devo avere in chiaro cosa voglio dire. Negli anni ho sviluppato una ricerca sul territorio e sul micro-territorio: la Svizzera, i luoghi dove abito… Il fil rouge che lega i miei progetti, è la relazione tra l’uomo e il luogo dove vive. Desidero mostrare come l’uomo gestisce il territorio, attraverso ciò che costruisce. Non si tratta unicamente di interesse personale ma anche di una questione storica. Mi piace pensare che se una particolare fotografia non viene realizzata, alla velocità in cui stiamo cambiando il territorio, quella documentazione verrà persa per sempre. A Molino Nuovo, ad esempio, ci sono dei luoghi che ho fotografato l’estate scorsa che non esistono più. Sono stati distrutti e stanno costruendo dell’altro. Se non avessi scattato quelle fotografie, non ci sarebbe una documentazione storica di quel luogo. Così non avremmo avuto notizia di come eravamo e non potrebbero saperlo nemmeno le generazioni future. La fotografia per me è legata sia a un senso concettuale che ad uno estremamente pratico.
Ho l’impressione che la fotografia aiuti anche a soffermarsi su qualcosa che magari vediamo tutti i giorni ma che non guardiamo veramente…
Parlare di qualcosa di familiare è difficile perché si tratta di una realtà che spesso diamo per scontato. Per riuscirci, devi lavorare per eliminare in te tutta una serie di filtri e renderti attento ad altro. Questo processo porta a quello che gli americani chiamano “fotografia vernacolare”. Il tragitto casa-lavoro, ad esempio, dopo le prime volte, non lo vedi più. Sono sicuro che fare lo stesso percorso di sabato a piedi, potrebbe svelarci nuovi dettagli e differenze che abitualmente non cogliamo. Tendiamo spesso a sottovalutare e a non vedere ciò che abbiamo davanti agli occhi, finché un altro non ce lo mostra.
In arte si parla dell’importanza del “non detto”: quello che l’immagine non dice ma che invita a cercare. Vale anche per la fotografia?
Indubbiamente è una cosa che ricerco nei miei lavori e che auspico facciano tutti i fotografi. Dico spesso che l’immagine è il nostro background. I tuoi studi, le emozioni, i ricordi e tutto ciò che può essere considerata la tua esperienza, le proietti nel quotidiano e vedi il mondo secondo questo tuo background, attraverso un codice che ti permette di decodificare il mondo. Nel guardare una fotografia si mette in atto lo stesso processo ma con un fattore aggiunto: chi te la sta mostrando ha usato il suo codice per crearla, per riuscire a spiegare quello che stava guardando. Ecco che avviene quindi un incontro di due mondi, di due background, e ogni tanto succede che l’altro venga catturato da questo incontro mentre altre volte no. Molto probabilmente le persone a cui piacciono le mie immagini sono persone che nella loro storia hanno almeno qualcosa in comune con me. Un’altra cosa interessante nella fotografia, così come nella pittura e nelle arti visive, è che spesso ci sono persone che ti sorprendono perché vedono qualcosa nel tuo lavoro, che tu non hai visto.
Ho conosciuto molti fotografi nella mia carriera e trovo che le rispettive fotografie rispecchino molto la personalità di chi le ha fatte. Trovo che quando è presente questa congruenza, sia anche possibile sentire quell’onestà nell’immagine che ti cattura.
Quali potrebbero essere le difficoltà per un giovane che si avvicina oggi alla fotografia?
Nonostante la fotografia oggi sia a disposizione di tutti, paradossalmente stiamo vivendo un forte appiattimento fotografico dell’immagine. Avendo a disposizione il digitale, dovremmo avere una tavolozza bianca da pitturare ogni giorno in modo diverso ed esprimere tantissima creatività, mentre invece trovo che molti lavori si assomigliano terribilmente. Penso che ciò non sia dovuto all’arrivo della fotografia digitale, ma a causa della digitalizzazione della comunicazione. Grazie a internet un giovane può confrontarsi con il mondo, senza però necessariamente aver avuto il tempo di sviluppare il proprio carattere e un pensiero suo. La mia generazione ha conosciuto internet solo nella post-adolescenza, io sono cresciuto con la fotografia analogica. Il nostro confrontarci con il mondo avveniva con una lentezza che permetteva a ognuno di sviluppare il proprio carattere. Oggi ci sono ragazzi di 25 anni che sono dei fotografi tecnicamente impressionanti, sanno fare cose che io onestamente non saprei fare. Tuttavia molto spesso mancano di fantasia e fanno fatica a dire qualcosa che abbia un senso o interesse. Sul web hanno la possibilità di vedere quello che fanno i fotografi famosi, e molti vorrebbero essere loro, così li imitano. Quelle persone che chiamiamo “famosi” però, nella stragrande maggioranza dei casi, hanno dovuto affrontare un percorso difficile, di introspezione, di prove, di abbagli, per poter riuscire a trovare la loro strada con una tempistica lenta, che ha permesso loro di formarsi in modo più completo. Sono sicuro che anche oggi un giovane può trovare la propria strada e formarsi a livello qualitativo, ma è estremamente più complesso perché a volte si rischia di essere sopraffatti e si tende a voler bruciare le tappe.
Stai lavorando a nuovi progetti?
Sto vivendo un periodo di transizione. Non ho più quell’ossessione degli inizi e confesso che ogni tanto questa cosa mi spaventa un po’. Quando cresci e nel mio caso hai famiglia, la vita diventa più articolata e non è possibile concentrarsi su un’unica cosa. Sto lavorando da diversi anni a un progetto legato ai codici estetici americani. Sono figlio degli anni ’80, cresciuto con i telefilm americani, lo skateboard, le riviste americane. Sono totalmente figlio di un America “imperialista” e questo per tanto tempo mi ha fatto sentire a disagio perché sentivo che il mio background non corrispondeva a quello di un giovane ticinese. Anche la mia fotografia risente di questo influsso; fotografo con uno stile molto americano il paesaggio. Qualche volta ciò mi dava frustrazione perché la vastità del territorio americano è diversa dal nostro paesaggio alpino. Ho poi capito che questo conflitto che avevo in me, era dovuto a questi codici assimilati che a volte andavano in contrasto. Così ho deciso di assumerli completamente. Nel mio lavoro vorrei mostrare che l’Europa dopo il ’45 è stata fortemente influenzata dagli Stati Uniti. Io la chiamo “l’estetica dei vincitori”: l’Impero romano conquistava i territori e portava la sua cultura, le strade, il cibo…, e la gente diventava sempre un po’ più romana. Così è accaduto con i barbari, i greci e così via.
C’è stata dunque questa americanizzazione occidentale di massa e sto lavorando in modo esplicito sulla tematica dei paesaggi “americani” che trovo sul territorio. Tutto ciò è complesso perché occorre far collimare lo stile fotografico e il mio pensiero, con lo sguardo su di un territorio che generalmente le persone non vedono come americano.