“L’arte come coscienza della società” – Intervista a Ledwina Costantini, regista e attrice

“Requiem for my Dream” di Opera retablO porta in scena una riflessione sul ruolo degli artisti nella società contemporanea allo Studio Foce l’11, il 12 e il 13 febbraio nell’ambito della rassegna HOME. Parliamo del progetto con Ledwina Costantini, regista e attrice dello spettacolo.
08 Febbraio 2022
di Silvia Onorato
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Requiem for my Dream © Massimiliano Rossetto
Requiem for my Dream © Massimiliano Rossetto

Requiem for my Dream” è una performance che porta in scena la perdita dell’importanza dell’arte e degli artisti nella società contemporanea, fenomeno accentuato dalla crisi pandemica: una riflessione sulle sue cause, ma anche sul ruolo che spetta a chi fa arte al giorno d’oggi. In scena i tre artisti Raissa Avilés, Daniele Bernardi e Ledwina Costantini, fondatrice e direttrice di Opera retablO – associazione artistico-teatrale caratterizzata dalla promozione di contaminazioni artistiche, culturali e disciplinari.

Il progetto ha per tema la svalutazione dell’arte e degli artisti da parte della società contemporanea. Quando è iniziato questo fenomeno, secondo te? Cosa è andato perduto?
Secondo me, da quando il profitto è diventato il valore più importante per l’essere umano. Le persone che si occupano di cultura ed arte oggi non hanno più alcun potere perché dipendono quasi interamente dall’economia e dalla politica. Così accade che l’artista diventi una specie di servo volontario, un servo colto che per acquisire privilegi sociali ed economici si mette al servizio dei potenti. In questo modo invece di sovvertire lo stato delle cose e criticare gli eccessi del potere ne diventa schiavo e ne avvalla le dinamiche distruttive, fornendogli al contempo l’ingannevole maschera della cultura. In questo modo la cultura e l’arte si sottomettono al potere e perdono il loro ruolo sovversivo.
Se da un lato è vero che gli artisti hanno sempre avuto una relazione ambigua con il potere e con i soldi, dall’altro si sono sempre sollevati per opporsi – oggi tutto questo sembra perso. Emblematica è la figura del giullare: un servo del re che con raffinata ironia si permetteva di criticarne l’operato. Quello che pare essere andato perso oggi è il coraggio di dire la verità.

Qual è il ruolo che tu immagini, per gli artisti?
Mi immagino degli artisti che possano difendere la propria diversità e la propria fragilità senza soccombere agli imperativi estetici ed economici che paiono pervadere ogni cosa. Vorrei artisti che possano operare in un panorama orizzontale che permetta il proliferare della diversità. La diversificazione è vitale, mentre una struttura gerarchica è esclusiva, elitaria e sterile. Vorrei un’arte che sia ponga come coscienza, come anima della società nella quale opera invece che asservita al potere. Il potere infatti non sta mai dalla parte dei molti, ma sempre dalla parte di pochi privilegiati.

Alcune forme d’arte, o alcuni artisti, sembrano essere sempre “sulla breccia”. L’arte può diventare talvolta una questione di moda?
Se non consideriamo l’arte pura, quella di puro istinto, l’Art Brut, e guardiamo invece all’arte inserita in un discorso di vendita e produzione, allora esiste sicuramente un mainstream con cui chiunque faccia arte per mestiere debba confrontarsi. In questo scenario è difficile capire quale compromesso si è disposti a fare, è difficile conservare una propria coerenza e misurare quanto ci si debba adeguare e quanto ci si debba opporre. Il mainstream è una questione di moda, ma non so se abbia a che fare con l’arte, l’arte che interessa a me. Non voglio promuovere  un ritorno a vecchi modelli – ma credo che sia importante conservare ciò che di costruttivo c’era nel nostro fare, ovvero creare discussione, diversificazione. Aderire completamente alle mode rientra nell’argomento del compiacere il potere per non perderne i privilegi.
Tengo a precisare che questo è un discorso personale e che non pretende di parlare a nome di tutti.

Il titolo ricorda “Requiem for a Dream”, film drammatico sulla dipendenza da sostanze. Ha avuto un ruolo nella scelta del titolo del progetto? Se sì, quale?

Mi sono ispirata al titolo del film e l’ho modificato rendendolo più personale: da “Requiem per un sogno” a “Requiem per il mio sogno”. Modificato in questo modo il titolo aderiva perfettamente al nostro tema proprio perché quello che portiamo in scena è la nostra visione e non per forza deve essere condiviso da tutti gli altri. Trovo che il titolo di Aronofsky sia bellissimo.
Ripensando alla pellicola, una possibile connessione è che il film pur essendo un film e dunque bidimensionale in un certo senso “piatto” riesce a dare allo spettatore una forte esperienza sensoriale e fisica. Il teatro e la performance dal vivo sono proprio questo: fisicità, immersione.

“Requiem for my Dream” è in scena allo Studio Foce l’11, il 12 e il 13.02.
Maggiori informazioni su foce.ch

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