Enzo Pelli (CH, 1948), laureato in lettere a Firenze, ha lavorato come assistente di antropologia all’Università di Ginevra. Per oltre 30 anni ha prodotto e realizzato programmi, documentari, sceneggiature per la Televisione Svizzera. Attivo nella calligrafia dal 1992, si è perfezionato con importanti maestri ed è il fondatore del gruppo Calligrafia in Ticino. Enzo Pelli ha anche pubblicato diverse raccolte di poesie: “Momenti irripetuti” (2014), “Solo una nube che passa” (2017), “Una musica lieve” (2018), “Il tempo breve” (2020). La sua ricerca lo ha portato ad esplorare le potenzialità espressive della scrittura, anche spingendola al di fuori della sua funzione verbale originaria.
Lei ha una formazione letteraria, con un dottorato all’università di Firenze; poi ha insegnato antropologia a Ginevra. Cosa l’ha spinta a scegliere questo percorso?
Mio padre era avvocato, e da ragazzo sono cresciuto con l’idea di diventare avvocato anch’io. Ma al liceo Giovanni Orelli, il mio insegnante di italiano, mi ha fatto amare il mondo della letteratura. Ho cambiato quindi direzione, con la mezza idea di diventare scrittore. È cominciato così un itinerario non lineare che dalle lettere ha deviato verso le scienze umane e poi nel lavoro in televisione; per diventare (modestamente) scrittore ci sono voluti quarant’anni…
Nella sua carriera professionale è stato produttore di programmi culturali per l’allora Televisione della Svizzera italiana. C’è anche un aspetto creativo in questo tipo di lavoro?
Erano gli anni ’70-’80, la televisione era più “culturale” rispetto a quella di oggi. Da un lato si faceva molta informazione su quello che succedeva in Ticino nel mondo della cultura; dall’altro, c’erano diversi programmi, soprattutto documentari, di approfondimento storico, artistico, letterario in cui era possibile esprimere la propria creatività. Si producevano anche lavori teatrali e fiction (io stesso ho scritto qualche sceneggiatura). Era davvero un lavoro bellissimo.
In quale occasione ha scoperto l’arte della calligrafia?
Mi è sempre piaciuto scrivere, sia letterariamente, che dal punto di vista gestuale. Il primo incontro con l’arte calligrafica è stato però casuale: in una cartoleria di Milano ho trovato una penna per calligrafia, di quelle buon mercato, non da specialisti; l’ho comprata, e nella confezione c’era anche un bigino che spiegava come tracciare le lettere. In seguito ho fatto un corso in Svizzera interna, ho incontrato appassionati anche qui da noi e abbiamo fondato un gruppo tuttora attivo che si chiama Calligrafia in Ticino. Un mondo che ci ha coinvolti profondamente e ci ha permesso di migliorare e diventare più esperti.
Cosa significa diventare un calligrafo?
Si comincia cercando di riprodurre gli alfabeti del passato, dall’antica Roma al Medioevo al Rinascimento, ognuno con le sue forme e le sue proporzioni specifiche – utilizzando soprattutto penne e pennini a punta tronca; all’inizio è un mestiere più da amanuense che da artista. A poco a poco, però, con la pratica si impara a comporre le lettere in maniera più libera, per ottenere effetti espressivi che si avvicinano a quelli della pittura. Esagerando le forme di una lettera, sovrapponendo i segni, aggiungendo colore si possono ottenere opere interessanti e ben proporzionate, anche se spesso lontane dal testo di partenza. A un certo punto bisogna decidere quanto si vuole mantenere della calligrafia tradizionale, e quanto ci si vuole avvicinare alla pittura. Io credo di aver trovato un mio personale “equilibrio variabile”.
Protagoniste delle sue opere sono le lettere, segni materiali con una loro dimensione estetica, indipendente dalle parole che compongono. Cosa guida la sua ricerca?
In generale si può dire così: meno metti nell’opera, più devi sapere in anticipo quello che stai facendo: sono pochi gesti, non c’è margine d’errore. Al contrario, se l’opera è più lavorata, più pittorica, si può anche andare per tentativi, provare degli effetti, oscurare, schiarire, coprire. Io lavoro tra questi due estremi.
A volte traccio forme gestuali su grandi fogli bianchi: lascio andare il pennello sulla superficie, disponendo bianchi e neri secondo un piano stabilito in partenza – un po’ come negli alfabeti orientali. In altri momenti invece riempio e sovrappongo: comincio per esempio a scrivere parole leggibili con inchiostri chiari; poi ricopro parzialmente la pagina con vari strati di lettere in colori sempre più scuri. Alla fine, del testo iniziale appaiono soltanto brevi squarci luminosi. Se l’opera è molto densa, tante volte non riesci a pianificarla completamente, viene un po’ per volta, da sola: per motivi estetici aggiungi o togli, e ti ritrovi lontano dal punto di partenza.
Quando il significato viene perso per strada e non è più leggibile linguisticamente, cosa diventa?
È difficile dirlo. Il significato spesso viene perso per strada: se si deformano troppo le lettere e le si trasformano in modo artistico, alla fine il testo iniziale non si può più leggere. La sensazione è di avere davanti agli occhi un quadro astratto, o una vetrata. Sono però convinto che resti sempre almeno una traccia del significato originario, che si può ancora riconoscere, che traspare nel quadro finito… Il testo si perde, non ha più un significato alfabetico, ma conserva comunque tracce di lettere e un suo valore semantico: quello che voglio dare allo spettatore, anche inconsciamente, è il senso che quanto vede significhi qualcosa, o perlomeno trasmetta un’atmosfera.
Lei è anche poeta. Nelle sue opere la poesia assume una forma sensibile?
Quando ho cominciato praticare la calligrafia mi sono imposto di non utilizzare testi qualunque, ma unicamente versi di poeti che amavo. Più tardi ho poi iniziato a utilizzare anche le mie poesie. Siccome su un foglio non c’è tanto spazio, ho scelto spesso singoli versi o frasi, in modo da decontestualizzarli e amplificare il loro significato. È come se grazie alla calligrafia espressiva la poesia assumesse un’altra forma, trovasse un altro modo di esprimere le cose, un modo più ambiguo, incerto, difficile da capire.
Viviamo in un mondo in cui si scrive molto, e in modo digitale. Secondo lei quanto è importante ancora oggi la parola scritta, pensata, tracciata a mano su un supporto cartaceo?
In sé la calligrafia non serve più: è diventata una forma artistica praticata da pochi. La sua importanza economica è uguale a zero. In certi paesi a scuola non si insegna neanche più a scrivere in corsivo e ci si accontenta dello stampatello – perché è più facile, è uguale al carattere del telefonino.
La scrittura a mano è un atto complesso. C’è un aspetto psicologico, di concentrazione, di uso dell’intelligenza, e c’è anche un aspetto non indifferente di padronanza muscolare: scrivere implica saper usare le proprie mani in modo complesso. Tutto questo sapere va perdendosi. Sicuramente è una cosa preoccupante, ma bisogna ricordarsi che fino a 200 anni fa quasi nessuno sapeva scrivere.
Sono convinto, però, che la sparizione della scrittura manuale e del libro cartaceo hanno effetti negativi. Oggi si privilegia l’immediatezza, la velocità di diffusione; il messaggio scritto in una chat può essere inviato molte persone contemporaneamente, e da queste raggiungere poi in un attimo un numero esponenziale di altri interlocutori, anche sconosciuti; tutto con un paio di clic: non si fa più scelta, non si riflette, è buono tutto ed è buono subito. Quando si scrive a mano invece si deve pensare, si deve fare: pensare al testo e al suo destinatario, scegliere il colore dell’inchiostro e l’impaginazione della pagina, trovare un bel francobollo, andare alla posta, imbucare la lettera. Sono momenti di lenta creatività quotidiana che, come molti altri, si sono persi – e non so quanto si sia guadagnato nel cambio. Penso sarebbe meglio rallentare, spegnere il telefonino, guardare il cielo, chiacchierare, leggere, scrivere.
Può raccontarci qualcosa dei suoi prossimi progetti?
Qualche mese fa ho potuto registrare un audiolibro per l’UNITAS, l’associazione dei ciechi e degli ipovedenti, in cui parlavo sia di calligrafia che di poesia: mi è rimasta l’impressione molto appagante di aver fatto qualcosa di utile, e al tempo stesso ho potuto riflettere e chiarire ciò che sapevo di me in modo inconscio.
Di recente ho fatto una esposizione personale alla Cantina di Muzzano, una piccola antologica di miei lavori degli ultimi dieci anni. Con il Gruppo Calligrafia Ticino abbiamo in programma nel mese di ottobre una mostra all’Archivio Cantonale: siamo una ventina e interpreteremo in modo corale tutto l’alfabeto. Dovrebbe anche uscire in questi giorni a Zurigo da Limmat Verlag un’antologia delle mie poesie, con la traduzione in tedesco a fronte. Infine, sto lavorando alla redazione vari libri di tipo storico-artistico.
Enzo Pelli incontra il pubblico il 24 maggio, dalle 18:30 alle 20:30, allo Studio Foce. Entrata libera, fino ad esaurimento dei posti disponibili. Possibilità di seguire l’incontro in Live streaming.
Maggiori informazioni: foce.ch
Visarte-Ticino è un’associazione culturale che ha come scopo la divulgazione, la promozione e lo sviluppo delle arti visive nel cantone Ticino, in Svizzera e all’estero.
I Visarte-Talks hanno l’ambiziosa missione di esplorare il ruolo che gli artisti hanno nello scenario culturale contemporaneo locale e globale per poi continuare l’indagine ponendo particolare attenzione all’evoluzione dei personali metodi di ricerca degli artisti, come questi si rapportano alla formazione della memoria collettiva (percezione universale?), ma anche come vengono influenzati a loro volta implementando quel ciclo virtuoso che prende corpo nel nostro immaginario collettivo. I Visarte-Talks sono svolti in collaborazione con Agorateca Lugano e sostenuti dal Dipartimento della Cultura e dello Sport del Canton Ticino (DECS).