Nina Haab, artista visuale nata a Bellinzona nel 1985, attualmente vive e lavora a Ginevra. Dopo la formazione presso la CSIA di Lugano, Nina ha studiato arti visuali all’Haute Ecole d’Art et de Design (HEAD) di Ginevra. Ha vinto il premio Svizzero di Arte (Basilea) nel 2012, ha completato una residenza d’artista a Berlino tra il 2015 e il 2016, e nel 2020 riceve il premio della Fondation Abraham Hermanjat. Nina è membro cofondatore del collettivo ginevrino NotOnlyKidsPlay. Fulcro della sua ricerca artistica è la memoria: Nina Haab percorre e rappresenta i ricordi dei soggetti, i loro archivi personali e luoghi per loro significativi, e si interroga su come questi incarnino archetipi e identità collettive.
Buongiorno Nina, la ringrazio per essersi resa disponibile a questa intervista. Com’è nata la sua passione per l’arte?
La passione per l’arte è nata quando ero bambina. Sono cresciuta nel garage di moto di mio padre, dove c’era sempre un via vai di persone di tutti i tipi che mi divertivo a osservare: erano non solo dei meccanici, ma anche dei creativi. Questo ambiente mi ha permesso di adattarmi a diverse tipologie di persone. Mio padre, inoltre, aveva una grande passione per la fotografia e per l’arte in generale: ci ha sempre fatto molte fotografie e diapositive. Direi quindi che la passione è nata da una predisposizione, e dall’ambiente di famiglia in cui sono cresciuta.
Le sue opere hanno per soggetto la vita vissuta: le persone, il loro territorio, le loro storie, i loro ricordi. Ci spiega la sua scelta?
Mi ha sempre interessato il tema dell’identità personale, delle radici, del luogo che si considera ‘casa’. In prima persona, sono una ticinese un po’ strana: di solito i ticinesi sono molto territoriali, mentre la mia famiglia è diversa. Mio padre è nato in Ticino ed è cresciuto a Oerlikon, mentre mia madre è nata a Mesocco, i suoi genitori sono un misto di Canton Berna, Giura e Vaud. Il nonno materno si è spesso spostato per tutta la Svizzera per lavorare nei cantieri di tunnel e ponti, e al suo prematuro decesso la famiglia si è stabilita in Ticino. Penso che le mie radici sono quindi ticinesi: pur essendo a Ginevra da 15 anni, le conservo nella lingua, nell’accento, nel modo di fare.
Questo aspetto si ritrova nelle mie opere. Anche se possono essere di diverso tipo – talvolta il risultato di scoperte personali, talvolta su richiesta di curatori o storici dell’arte – il procedimento è sempre lo stesso: una sorta di inchiesta, durante la quale vado su un territorio ben preciso, incontro le persone che lo abitano, cerco di capire, osservare, cerco delle chiavi di comprensione, foto d’epoca, d’archivio, foto personali, cerco di capire da sola e attraverso i racconti delle persone diversi indizi per costituire una storia.
Alcuni dei suoi progetti trattano la malattia, come Alzheimer, malattie psichiatriche, cancro al seno. L’arte aiuta ad affrontare e capire la malattia?
Secondo me, l’arte aiuta in generale, in qualsiasi campo; la cultura fa bene alla società in molteplici modi. Per quanto riguarda il tema della malattia, penso sia importante sensibilizzare lo spettatore su situazioni che succedono e che possono toccare tutti da vicino. Il mio obiettivo è quello di far identificare lo spettatore. Un periodo della mia attività artistica l’ho dedicato a questo tema, declinandovi il più generale fil rouge della mia ricerca, ovvero la memoria collettiva e individuale. Da un lato, nelle opere riguardanti l’Alzheimer ho cercato di capire come sia un diverso modo di funzionare della memoria, quando qualcuno perde gli attimi presenti e conserva una lucidità mentale su alcuni momenti del passato. Su questo progetto ho lavorato con mia nonna, che soffriva della malattia. In particolare, “Alzheimer n°2 “ è stato premiato ai Premi Federali nel 2012. Ho lavorato anche sull’esatto opposto, la sindrome di Diogene: un disturbo psicologico di chi, per paura di perdere, accumula tutto quello che può conservare. A volte è settoriale – per esempio, collezionare un certo tipo di oggetto; a volte può diventare grave, tanto che alcune persone arrivano a morirne. In generale, fa parte della mia più vasta indagine sulla memoria, per capirla considerandola da diversi punti di vista – ho anche lavorato con un neuroscienziato per capire come lavora il cervello, come vengano selezionati i ricordi.
L’opera sul cancro al seno invece l’ho realizzata su mandato da parte della Fondation genevoise pour le dépistage du cancer.
Che ruolo ha la trasmissione nella sua vita artistica? Ci racconta la sua esperienza nel collettivo NotOnlyKidsPlay?
Dopo la HEAD, ho studiato all’Università di Ginevra per diventare insegnante di arti visive per diverse ragioni: una di queste, è poter trasmettere la mia passione ad altre persone, e rendere il mondo dell’arte più accessibile. Da bambina e adolescente, infatti, era un mondo che mi interessava moltissimo, ma ho avuto tante difficoltà a trovare persone che mi indicassero la strada: pur essendo infatti un mondo presente nella vita – si può facilmente andare al museo, alle esposizioni – è difficile accedervi. Ricordo bene la frustrazione di quando ero adolescente, tanto che mi sono ripromessa che se mai fossi riuscita ad entrare in questo mondo, mi sarei impegnata a renderlo più accessibile. Con queste motivazioni, già durante il mio Master, insieme a Isabelle Racine, Laura Thiong-Toye , Alexandra Haeberli, Antonin Demé, e Carine Parola – purtroppo deceduta due anni fa – ho creato NotOnlyKidsPlay, un collettivo pensato per creare progetti di mediazione culturale e progetti curatoriali, e così facilitare la comprensione di esposizioni e della cultura in generale. L’obiettivo è attirare il pubblico attraverso progetti ludici. Per esempio, agli inizi della programmazione dello spazio Sonnenstube, abbiamo portato a Lugano “Banana Split”: abbiamo invitato artisti da tutta la Svizzera, che avevano a disposizione dei cartoni di banane, che ognuno poteva trasformare in un’opera d’arte.
Infine, da 11 anni insegno qualche ora visiva agli adolescenti di una scuola di un quartiere popolare del Canton Ginevra, cercando di facilitare l’accesso al mondo della cultura e dell’arte.
Nel 2020 ha iniziato una serie di disegni intitolata “Locus Amoenus”. Cos’è il locus amoenus per lei?
Il locus amoenus è un topos che esiste da secoli: paesaggi idillici in cui c’è fermento di vegetazione e una fonte d’acqua, delle oasi che fanno star bene lo spettatore. Ho iniziato questo progetto in risposta al periodo di confinamento: fino a ora ho realizzato cinque disegni, in grafite, in bianco e nero, dall’impostazione fotografica, molto dettagliati e realistici. Tra l’altro, il primo disegno risale a ottobre 2020 ed è legato al Ticino, poiché rappresenta i bagni pompeiani di Arzo.
Crearli per me è un processo lungo e meditativo: disegnare ogni fogliolina di una foresta è un modo per evadere, avvicinarmi alla natura, e sentirmi bene. Inoltre il disegno non copre mai totalmente la superficie del foglio, ma è come un occhiello del foglio, una piccola parte. In questo modo lo spettatore non solo si perde nel paesaggio in modo rigenerante, ma può anche completare il resto dell’immagine con la sua memoria.
Attualmente espone a Bruxelles, in Francia e in Polonia: ci racconta cosa significa per lei esporre al tempo del Coronavirus?
Purtroppo, la cultura è stata tra i settori più colpiti dal coronavirus. Personalmente, ho avuto cancellazioni di alcuni progetti; altri invece si sono trasformati. Affronto questo periodo con filosofia: c’è in corso una crisi sanitaria, va accettato che questo sia un periodo complicato e che si debba essere molto flessibili. Per esempio, l’esposizione a Bruxelles è stata annullata ben 4 volte in due anni; a un certo punto ho pensato che non avrebbe più avuto luogo, invece il gallerista ha deciso di tentare una quinta volta, ed ora è visitabile. Per l’esposizione doppia di Varsavia, dove ho portato molte opere, ho preparato tutto consapevole che avrebbero potuto annullarla all’ultimo momento.
Esporre all’estero è comunque sempre una grande opportunità: ogni paese ha la propria cultura e percepisce l’arte in modo diverso. Si instaura ogni volta un dialogo con chi ti invita nel proprio paese.
Alcune delle sue installazioni permettono al pubblico di interagire con le sue opere, grazie a suoni, oggetti e architetture, creando una esperienza per lo spettatore. Lo spettatore diventa parte dell’opera d’arte?
Dipende dalle circostanze. Per quanto riguarda il mio lavoro, mi viene in mente la motivazione che la giuria di specialisti ha dato quando ho ricevuto il premio della Fondation Abraham Hermanjat a fine 2020: spesso un artista è riconosciuto per un certo medium, per esempio un artista è fotografo, pittore, scultore; nel mio caso, invece, non si può stabilire un unico medium, ma un ambiente in cui coesistono diversi media, in cui lo spettatore può entrare, passeggiare, scoprire gli elementi (oggetti, fotografie, video, disegni), interpretare quello che percepisce o immaginare il resto della storia. Per me è importante che lo spettatore possa girovagare nella mia opera, entrare in una sorta di universo. In particolare quando preparo delle installazioni, curo ogni aspetto dell’esperienza: per esempio, se devo proiettare un video, scelgo il tipo di seduta, aggiungo un tappeto, un tavolino, o elementi naturali come sabbia e legno, per creare un ambiente in cui lo spettatore si possa sentire a casa. Penso sia importante perché curando l’ambiente gli spettatori riescono a entrare meglio in quello che voglio esprimere attraverso la mia arte.
Può anticiparci qualcosa a proposito dei progetti a cui sta lavorando?
Solitamente lavoro su diversi progetti allo stesso tempo, ognuno su un supporto diverso. Attualmente sto lavorando su “Locus Amoenus”, la serie di disegni già citata. Sto realizzando una serie di installazioni di disegni su mobili di seconda mano chiamata “Peppy Wrecks”, cominciata quest’anno. In parallelo, poi, sto lavorando alla finalizzazione di un progetto video iniziato quattro anni fa che è stato parzialmente bloccato dalla pandemia, ma che verrà finalmente presentato nel 2022. Il titolo è “One Natural Border” e tematizza la frontiera naturale delle Alpi: una frontiera tra nord e sud dell’Europa, che separa lingue e culture diverse e così crea identità diverse. Ho finito le riprese, effettuate tra il passo della Novena e il Gottardo – un’esperienza molto particolare, considerando le peculiarità logistiche legate al filmare sulle Alpi, ma anche le condizioni climatiche e i momenti intensi vissuti per esempio quando ho assistito alla rimozione della neve per aprire la strada e collegare i due versanti della montagna. Mi sto occupando della post-produzione.
L’ultimo progetto è la mia partecipazione all’esposizione Panart Neuchâtel, che si terrà per due mesi a partire da aprile. È un progetto molto intrigante, per cui sono stata selezionata insieme ad altri 5 artisti: ognuno deve lavorare su uno o più quartieri della città e creare delle opere in collaborazione con gli abitanti. Entrerò in dialogo sia con gli abitanti di tutte le età, realizzando delle interviste, sia con uno storico della città: a partire da questi dialoghi creeremo insieme delle opere che verranno esposte en plein air in due luoghi di Neuchâtel, uno nella città alta e uno nella città bassa.
Visarte-Ticino è un’associazione culturale che ha come scopo la divulgazione, la promozione e lo sviluppo delle arti visive nel cantone Ticino, in Svizzera e all’estero. Visarte Talks è un’idea sperimentalmente aperta, nata dal desiderio di costruire un nuovo luogo dove potersi incontrare informalmente e con spirito di scambio e confronto tra artisti e pubblico. L’ideazione e l’organizzazione è a cura di Matteo Fieni, fotografo, artista, operatore culturale e copresidente di Visarte-Ticino.
Nina Haab incontra il pubblico di Visarte Talks 2021 il 7 dicembre, dalle 18:30 alle 20:00, allo Studio Foce. Incontro visibile anche online grazie al live streaming.