“Una storia per abbattere i muri” – Intervista a Antonio Tancredi, regista

“Il gigante egoista” è uno spettacolo di teatro d’attore e di figura che racconta l’importanza della condivisione. “Il gigante egoista” andrà in scena al Boschetto del Parco Ciani il 12 agosto nel contesto della stagione estiva del Family. Ne parliamo con Antonio Tancredi, regista della compagnia Cattivi Maestri.
09 Agosto 2022
di Silvia Onorato
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“Il gigante egoista” mette in scena la storia di un gigante talmente innamorato del proprio giardino da vietare l’ingresso a chiunque, in particolare ai bambini. Grazie alla costruzione di un muro, il gigante riesce nel suo intento; tuttavia, il giardino presto si trasforma in un luogo triste, freddo e coperto di neve. Solo il ritorno dei bambini riuscirà a far rifiorire il giardino. Lo spettacolo è tratto dall’omonima fiaba scritta da Oscar Wilde per i suoi figli nel 1888, parte della raccolta “Il principe felice e altri racconti”. Ne parliamo con Antonio Tancredi, regista della compagnia Cattivi Maestri.

“Il gigante egoista” di Oscar Wilde è una fiaba densa di simboli. Che cosa racconta?
Lo stesso protagonista, il gigante, rimanda a qualcos’altro, per non parlare del giardino, delle stagioni, della primavera che resta fuori dallo stesso giardino mentre gelo e neve la fanno da padroni, del bambino che chiede allo stesso gigante di aiutarlo a salire sull’albero. Come nelle antiche fiabe, Wilde racconta una storia che rimanda ad altro e che ha una funzione ben precisa: prima ancora che pedagogica, la storia del Gigante egoista è una storia di guarigione, che guarisce chi l’ascolta, dà sollievo. E cos’è il sollievo se non un cambio di stato che ci aiuta, come nella storia, a raggiungere un livello diverso, innalzandoci fino alla sommità dell’albero. Certo il gigante egoista ci rimanda a chi è troppo in alto per vedere chi sta in basso, che siano i bambini, come quelli che stanno socialmente ed economicamente peggio. Non è difficile ricollegare il personaggio della storia a quei tanti che costruiscono i muri per impedire ad altri di entrare nel proprio ricco giardino per poter viverci con le proprie famiglie. Non so se Oscar Wilde abbia pensato a queste possibili interpretazioni della sua storia, sta di fatto che la sua storia, indipendentemente da lui, ci parla anche di questo. Chi scrive lo sa, le storie possono vivere di vita propria, andando al di là delle intenzioni iniziali dello stesso autore.
Il racconto in questione è abbastanza semplice e lineare: un gigante, dopo sette anni ospite dal cugino, ritorna a casa. In quei sette anni il suo bellissimo giardino era diventato il luogo di gioco dei bambini di un paese vicino. Il gigante poteva accogliere questa nuova situazione di fatto oppure decidere per cacciare i bambini; ed è quello che fa. Ma la cacciata non è senza conseguenza. Scegliendo di costruire un muro che protegga il suo giardino lui si condanna all’isolamento e alla solitudine. E cos’è la solitudine se non la mancanza di contatto, di relazione, di scambio? Cos’è la solitudine se non l’altra faccia della medaglia dell’egoismo, che è un’altra forma di solitudine? L’egoismo, questo tipo di egoismo, infatti richiede che tutto lo spazio sia occupato dal proprio ego. Per questo, nella storia, non ci può essere spazio per altri, neppure per i bambini. Ma la solitudine a volte diventa intollerabile anche per chi la cerca come argine al mondo esterno; comunque, non era l’effetto voluto dal nostro gigante: nella storia proprio il gelo e la neve che hanno preso il posto della primavera, l’esperienza della solitudine, creerà le premesse per il ritorno dei bambini e dell’incontro tra il gigante e un piccolissimo bambino che desiderava arrampicarsi sugli alberi senza riuscirci. È lui, che ringraziando il gigante con un bacio, aprirà una breccia nel cuore del gigante, che, a quel punto, abbatterà i muri.  Se nella storia originale il bambino è Gesù, nella nostra assume la rappresentazione dell’infanzia. E cos’è l’infanzia se non la primavera stessa dell’umanità? Se manca l’infanzia cosa ci resta se non un gelido inverno? E attraverso il rapporto con l’infanzia che l’adulto riscopre anche il suo giardino e intuisce che questo, il giardino, può acquisire un senso diverso. La sua condivisione renderà quel giardino di nuovo fiorito.

Il messaggio della storia è l’importanza di socializzare e condividere. Che differenza c’è tra l’amicizia iniziale tra il Gigante e l’Orco, e quella riscoperta nei confronti dei bambini? Quando avviene la metamorfosi nel Gigante? 
Nel racconto originale l’amicizia tra il Gigante e l’Orco è descritta brevemente, e serviva a fondare la lontananza del Gigante dal suo giardino e la nascita della sua nostalgia. Nel costruire lo spettacolo l’abbiamo volutamente espansa per raccontare come il gigante si rapportava con altri della sua stessa stazza: con l’Orco il Gigante parla del passato comune, ma in questo passato emerge sempre la competitività, il tentativo di affermare la propria superiorità sull’altro. Entrambi ripetono spesso “io”. È vero, anche durante l’infanzia – e non solo –  ci sono momenti in cui è imprescindibile l’affermazione del proprio io rispetto all’esterno, ma questo ben presto viene superato da una mediazione che predilige la relazione. Nella relazione con l’Orco persiste però un qualcosa d’infantile, nel senso buono del termine. Il ricordo dell’infanzia, anche se innesca un gioco competitivo, aiuta a non spegnere nel gigante la propria infanzia, intesa come qualità spirituale. Questa sarà risvegliata dal bambino. È ciò avviene con un bacio, proprio come nelle fiaba classica della Bella addormentata. Al bacio, altro elemento simbolico, Wilde affida il potere del risveglio. Ciò avviene quando il gigante e il bambino sono sullo stesso piano. Anche questo elemento ci rimanda a quanto sia importante perché possa crearsi una relazione, e in questo caso una relazione che è amore, che ci sia un piano di parità.

A raccontare al pubblico la storia del gigante egoista sono due nomadi. Chi sono?
Quando mettiamo in scena una fiaba tradizionale ci domandiamo chi sono quelli che agiscono, e, se raccontano, perché lo fanno, qual è la loro funzione. In questo caso abbiamo pensato a due nomadi Route e Road – entrambi i nomi richiamano, in francese e in inglese, la strada. E cosa sono i teatranti se non nomadi che sono in continuo viaggio tra piazze e teatri? Abbiamo immaginato che Route e Road nel loro girovagare, non solo raccolgano storie, ma le raccontino. Per farlo chiedono permesso e cercano di vincere la diffidenza del pubblico. E attraverso il racconto il muro, quello della storia e quello tra pubblico e narratori, verrà abbattuto. Di fatto, abbattere i muri è anche la funzione del teatro.

La vicenda è narrata tramite l’utilizzo di oggetti. Di quali oggetti si tratta?
Innanzitutto un tappeto, un piccolo tappeto che diventa per noi il tappeto delle storie. Di tutte le storie possibili e impossibili. L’idea l’abbiamo rubata a Peter Brook – rubato è un termine forte, forse sarebbe meglio dire l’abbiamo presa in prestito, come Brook aveva fatto con la cultura orientale. Il tappeto è il luogo in cui ci si ferma, ci si incontra, si baratta, si vende e si compra, si sosta e ci addormenta: è casa e storia. Il tappeto, con i suoi limiti, può raccogliere immaginario infinito. All’inizio la scena è nuda, tutto si costruirà sopra, dentro e fuori dal tappeto che le due attrici portano con sé in scena. Ma se il tappeto è sia casa che palcoscenico, sono le valige a contenere le storie: da esse uscirà tutto quelle che serve per raccontare. Ogni cosa ha un suo senso e lascia un suo segno. Il resto lo aggiunge l’immaginazione dei bambini e del pubblico, per cui una valigia con una finestra diventerà la casa del gigante; i fiori segneranno il giardino e un ombrello la chioma di un albero. La scelta di non usare una scenografia didascalica va nella direzione di un teatro più vicino all’infanzia e a un linguaggio evocativo. Un teatro forse “povero”, fatto con poco, ma quel poco che basta. E sicuramente non di idee. Un teatro pensato per viaggiare e andare in qualsiasi luogo.

Lo spettacolo racconta la bellezza dei momenti di calore; sono necessari anche i momenti di gelo? Che ruolo hanno?
Durante lo spettacolo c’è un momento in cui la neve chiede al Gigante: “Cosa te ne fai di un sole pallido che a volte c’è e a volte no! Non pensare di fare a meno di noi. Noi siamo qui e qui restiamo!”. Nella nostra vita passiamo attraverso momenti faticosi, duri e critici. Però è una legge naturale, fisica, che dopo l’inverno arrivi la primavera; noi non speriamo che arrivi la primavera, noi sappiamo che arriverà. E proprio il gelo ci permette di riconoscere la primavera, il suo calore e i suoi colori. A volte è inevitabile passare dai momenti di gelo. Basta che questi non siano così lunghi. E sicuramente l’aiuto e la relazione con gli altri, la condivisione, ci aiuta a superarli prima.

“Il gigante egoista” andrà in scena al Boschetto del Parco Ciani il 12.08 alle ore 20:30 nel contesto della stagione estiva.
Maggiori informazioni: luganoeventi.ch

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